Da molti anni ormai sul mio comodino c'e' un libro:i 'Sonetti' di Giuseppe Gioacchino Belli.
Per chi non lo conoscesse,il Belli fu un poeta dialettale romanesco che visse nella Roma del Papa-re in pieno ottocento.
La caratteristica principale della poesia del Belli e' la satira.
Santi e diavoli,vizi privati e pubbliche apparenti virtù,debolezze e piccole miserie umane:la satira tritura tutto,rendendola materia di derisione e di amara ironia.
Quel mio tanto esacrato ''popolaccio'' e' solo una libera traslazione linguistica del mio amato Belli,libera si ma che non travisa assolutamente il suo spirito arguto,amaro e sagace.
Il popolo e'-in lui-un coacervo di furbizia innocente e immoralità fanciullesca che ha-ai suoi occhi-una sola causa:l'ignoranza e la miseria in cui versano,colpevolmente abbandonati dai 'signori' e dalla loro prepotenza ed alterigia,pronti ad usare quel popolo per i propri fini o semplicemente per continuare a dominarlo.
Dietro tutto i miei paradossi(a che serviranno mai le virgolette in questa nostra lingua?)c'era un omaggio sincero per coloro che vivono e muoiono senza lasciare un nome o una traccia,a modo mio,nello sberleffo di chi ha timore di versare una lacrima...
Se per i baroni di Charlus e' esistito Proust,per i 'mastro Titta' c'è stato il Belli a dar loro l'immortalita'...